Vita in abbondanza

Francesca e Guido sono una coppia di sposi così belli, che vi faranno innamorare di loro. Curano una casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII. Li ho incontrati durante una loro testimonianza ad Assisi e non potevo non raccontare la loro bellezza a tutti voi. Come scrivo spesso, la bellezza va condivisa.

Partiamo dalle basi, chi siete?

Siamo Guido e Francesca. Io sono nato a Milano, Francesca ad Orvieto. Ci siamo conosciuti a Perugia durante gli anni dell’Università, tramite amici in comune. La verità è che ci siamo conosciuti veramente solo durante il percorso delle 10 Parole. L’annuncio di Dio ricevuto lì è stato liberante. Ho scoperto che Dio ci vuole bene e gli interessa se facciamo cose giuste o sbagliate, ma solo perché con le cose sbagliate ci si fa del male. In Lui non c’è un giudizio o un ricatto affettivo. Questo mi ha permesso di liberarmi da ansia e giudizi, facendo spazio a pace, serenità e leggerezza. Non c’è più bisogno di guadagnarsi nessun amore.

Dall’incontro personale con Dio Misericordioso, che mi accoglie per ciò che sono, è stato possibile stare con Francesca nella verità e migliorare il nostro rapporto. Conoscere quel tipo di Amore con la A maiuscola, ci ha fatto venir voglia di sperimentarlo tra di noi.
Tutte le scelte che abbiamo fatto erano orientate a quell’Amore: dalla castità prima a scelte economiche e familiari dopo.
Alla fine del percorso delle 10 Parole, durante l’estate dello stesso anno abbiamo incontrato la Comunità Papa Giovanni XXIII e con essa camminiamo tutt’ora. Da quel momento, la nostra vita è stata uno straripare di incontri.
Ci siamo appassionati al modo di vivere della Comunità, aperta all’incontro con gli altri. L’incontro, che si fa presenza nella propria vita e nella propria casa, mi ha affascinato e mi affascina tutt’ora. Non riuscirei a pensare alla mia vita in un altro modo.
Io e Francesca abbiamo incontrato tante persone, che nella loro fragilità si sono rivelate maestre di vita e di umanità. Penso a nostro figlio Pio, quasi diciottenne. Lui non è autonomo da quindici anni e pur non avendo detto mai una parola o camminato, con la sua gioia e la sua serenità riesce ad essere nostro maestro.

Francesca, cosa vorresti dire ai ragazzi che fanno uso di stupefacenti? Quale vita si nasconde al di fuori?

Il giro delle amicizie che avevo da ragazza non era così pulito… Purtroppo dei ragazzi che conoscevo sono morti. Qualcuno, abbandonato dai compagni, per paura del giudizio dei genitori, è morto da solo per strada.

Ero entrata a contatto con situazioni e relazioni distorte. Da ragazza ero intrappolata in un circolo vizioso che non mi faceva vivere.

Penso che attraverso sostanze stupefacenti e alcol si cerchi un distacco dalla realtà, un divergere dalla quotidianità o da una storia che non piace, non si accetta e non si accoglie.

La verità è che quello dato dalle sostanze è un divergere sempre molto limitato, perché la realtà da cui si scappa resta lì. E a un certo punto si ha bisogno di aumentare sempre di più le dosi di sostanze o di alcol, nel tentativo vano di raggiungere una felicità, che non è mai quella vera. Si sente il bisogno di non pensare, perché la felicità sembra essere una cosa troppo assurda e fantasiosa, nulla di concreto. Intanto non ci si ferma mai a pensare a ciò che si può fare davvero per cambiare la nostra vita. Si dà per persa la propria storia e la vita diventa un attendere che qualcosa accada. Ma nessuno si rimbocca le maniche per fare qualcosa. Che poi, basterebbe iniziare da cose semplicissime, come avere amicizie che ti fanno del bene e ti aiutano a vedere cosa vuoi.

Il problema è che siamo troppo focalizzati su “cosa non voglio” e non su “cosa voglio” e in questo modo di pensare non c’è una meta, un sogno, un obiettivo, ma solo un qualcosa dal quale scappare e allontanarsi.

Spesso non ci sentiamo degni d’amore, non ci apprezziamo e non ci fermiamo a pensare ai desideri che abitano il nostro cuore. La realtà sembra l’attesa di un miracolo, che si crede di non meritare fino in fondo e quindi non accadrà mai.

Invece, io penso che siamo degni di un’altra vita, di un’altra chance e dobbiamo desiderare e cercare.

Oggi ringrazio Dio perché mi accompagnata con lucidità al punto in cui sentivo il dolore e il male che mi portavo dietro.

Ecco perché credo che il dolore sia un servizio: serve a farti fare attenzione. Se stai male vuol dire che c’è bisogno di fare attenzione a qualche cosa, anche se dovesse farci paura.

Penso che gli adulti debbano passare ai ragazzi l’idea che la felicità è possibile e che la quotidianità è bella. Da questa parte del mondo, abbiamo anche il lusso di poter scegliere cosa vogliamo fare. Possiamo avere tutti gli strumenti per cambiare, per vivere felici. Poi la fatica è fatica, alzarsi di notte per i bambini è fatica, ma è tutto comunque talmente tanto bello che ti riempie la vita. E va bene così.

Come avete conosciuto la realtà della Comunità Papa Giovanni XXIII e cosa vi ha colpiti? Come avete capito che il Signore vi chiamava ad una vita così?


È stato molto semplice.
La famosa estate del 2001, dopo le 10 Parole, Francesca ed io siamo andati a trovare un nostro amico, senza sapere che stesse facendo servizio in una casa famiglia della Comunità. Ci siamo ritrovati catapultati in una casa famiglia allucinante, c’erano storie pesanti. Al secondo giorno, però, ho avvertito la sensazione di essere a casa e ho pensato che probabilmente anche io non dovevo esser messo così bene…
Mi sentivo come se quella cosa fosse stata fatta per me.
Poi il terzo giorno siamo andati a trovare una coppia che aveva una casa famiglia e i loro bambini affidatari erano nel giardino a giocare. Mi ha colpito questa famiglia con vita straripante. Mi sono voltato verso Francesca, mia futura sposa, e le ho detto che nel nostro matrimonio volevo una vita densa così.
Nella Comunità avevamo trovato persone semplicissime che provavano a vivere il Vangelo e quando con Francesca ci siamo interrogati su che famiglia volessimo costruire, quell’abbondanza di vita sperimentata ci ha affascinati e convinti.
Ripenso al periodo della mia vita in cui avevo desiderato di andare in Brasile in missione come medico e, oggi, mi vedo seduto al tavolo da pranzo con i miei figli e spesso con tanti altri bambini da tutte le parti del mondo. E penso che questa vita è bella: è per me!


Essere una casa famiglia è una scuola di vita enorme. Ci mette a confronto con storie diverse e ci aiuta a togliere le maschere. La vita in casa è così intensa che il tempo di pensare a cose inutili.

Non tutti conoscono la realtà della Comunità Papa Giovanni XXIII. Ci potete raccontare cos’è?


La Comunità Papa Giovanni XXIII è innanzitutto un rapporto col Signore ed è un cammino per riscoprirsi amati e salvati da Dio, giorno dopo giorno.
Come Comunità abbiamo delle linee guida che sono articolate in cinque punti: condividere la vita degli ultimi, condurre una vita da poveri, fare spazio alla preghiera e alla contemplazione, lasciarsi guidare nell’obbedienza, vivere la fraternità.

La vita di fraternità è un’opportunità di lavorare su se stessi, perché i fratelli non te li scegli – anzi a volte sono un dono che ritorneresti indietro – e sono un’occasione importante che Dio ti dà per crescere nella carità. Guarda caso, i fratelli che hai sono proprio quelle persone che misteriosamente Lui aveva pensato di farti incontrare per il tuo bene.
Una cosa che mi ha colpito tanto nel mio percorso di crescita nella fede è stato riscoprire il desiderio di voler bene a una persona che non tanto sopportavo.
Don Oreste Benzi, il nostro fondatore, diceva che per volerci bene deve esserci innanzitutto il desiderio di volersi bene. Quando questo non avviene le strade sono semplici: o sopprimi fisicamente l’altro o lo sopprimi spiritualmente oppure provi questa via misteriosa di provare davvero a voler bene a quel qualcuno.
Nella condivisione della vita a livello fraterno questa terza via è pane quotidiano. A volte pensiamo che la condivisione ci porterà a vivere esperienze meravigliose e fantastiche (che è anche vero), ma è soprattutto faticosa occasione di crescita.
Vivere insieme con tante persone che vengono da storie diversissime, non è mai come te l’aspetti. Spesso sono persone con tante ferite, che vedono in noi che le accogliamo, le spalle su cui rovesciare la croce che gli è capitata addosso.

E quando dopo un po’ di anni pensi di essere diventato “esperto” e pensi «adesso ho capito, so che andrà così…» TRACCHETE! Ti fregano, perché te lo fanno in un modo diverso e ti ritrovi sempre con la necessità di dire «Signore, pensaci te! Me l’hai messo te affianco. Dammi tu quella luce, quella mitezza, quella pazienza che io e Francesca non abbiamo. E donaci la Misericordia che è tua e non nostra sicuramente».

Tra le regole della vita della Comunità c’è anche la povertà. Cosa significa viverla con una famiglia e dei figli da crescere?


La povertà per noi significa vivere la vita tra poveri. Non è solo da poveri, ma è tra poveri. Tra povera gente che riconosce le sue povertà: di spirito, umane, di talenti, di capacità, spirituale, di fede…

In Comunità ci sono vari modi di scegliere la povertà, non solo in termini di essenzialità. Le case famiglia sono chiamate a mettere insieme concretamente i beni correnti. Nella nostra famiglia Guido lavora e mette il suo stipendio nella cassa comune (che è a livello mondiale). Ogni anno facciamo una stima di quello che potrebbe servirci in termini economici e i beni vengono suddivisi.
Ognuno mette e ognuno chiede. Non è detto che i soldi bastino sempre per tutti, anzi bisogna darsi da fare per far sì che i beni arrivino a tutti. Il tuo lavoro non è solo per te o per i tuoi figli, ma anche per i figli dei tuoi fratelli.

La mia povertà significa che io non mi appartengo e che quindi non scelgo solo per me.

La povertà è dare al fratello la possibilità di scoprire insieme ciò che Dio vuole nella nostra vita.
Noi viviamo in un convento in comodato d’uso gratuito. Ho sempre sognato una casa grande per poter accogliere, l’ho sempre chiesta e questa casa grande è arrivata: è un convento! Posso stendere i panni in un chiostro affrescato: che lusso!
La nostra è una vita da poveri, in cui al centro c’è la persona. Ma non in generale. C’è esattamente quella persona specifica che il Signore ti ha messo in casa.

Il nostro primo figlio ha una disabilità gravissima. Per un periodo, aveva tutti i giorni la febbre a causa di un problema di termoregolazione. Abbiamo sperimentato tante soluzioni per farlo stare bene e infine abbiamo comprato un condizionatore d’aria, che non è un oggetto da poveri, ma era ciò di cui aveva bisogno nostro figlio. Anche in altre occasioni abbiamo fatto spese costose, non “da poveri”.

Il bisogno concreto di quella persona che Dio ci ha messo affianco, diventa il criterio per cui tu scegli cosa avere o cosa non avere.

La povertà a cui ci chiama la Comunità ci porta sempre a spronare la Provvidenza. Se noi avessimo già tutto, non ci servirebbe nulla e non cercheremmo nulla, ma è proprio nella ricerca e nella richiesta che la Provvidenza si mette in moto.
Ad esempio, le auto che usiamo sono intestate alla Comunità. Ci siamo impegnati tanto per averle. Ci servono per andare a scuola e devono avere caratteristiche precise. Domani potrebbero servire un altro fratello. Quindi si fa che oggi l’auto è mia e domani non si sa.

Se noi oggi stiamo qui a Bevagna è perché i frati ci hanno fatto ‘sta grazia, ma non sappiamo fino a quando potrà essere così.
La nostra povertà è la nostra precarietà e questa condizione ci porta a seguire lo Spirito Santo.
La Comunità non vuole comprare case perché tali acquisizioni potrebbero rivelarsi vincolanti nello Spirito e vuole operare dove chiamano i vescovi, dove chiama lo Spirito Santo. La Comunità fa attenzione alle continue esigenze che sopraggiungono. Questa è la povertà di chi non possiede e di chi non fa da padrone ai beni. È la povertà di chi si confronta sempre con i fratelli e insieme a loro cerca di capire quali sono i bisogni reali.
La cosa sorprendente è che a nessuno non manca mai niente. Quello che desidero e che desideriamo veramente, non ci è mai mancato.
Facendo un esempio concreto, a nostra figlia Zoe avrebbe giovato l’equitazione per fare riabilitazione, ma costa tantissimo. Mentre con Guido facevamo delle valutazioni sulla questione, ci ha chiamati una signora che voleva farci una donazione con i regali ricevuti per i suoi cinquant’anni. Così abbiamo pagato tutta la riabilitazione di un anno ed è avanzato anche qualcosa.
Nulla di serio ci manca. Sperimentiamo una grande abbondanza.

Avete incontrato tante persone in questo cammino, tante storie, tanti volti bisognosi di amore. Qual è stato uno dei momenti più duri in questi anni?


Da ragazzo ciò che mi dava più fastidio era la noia. Invece da quando sono sposato non ho mai avuto un momento di noia. Rido molto di più e piango molto di più.

Durante un convegno di alcuni giorni fa, una psicologa ci parlava del “bisogno della gioia”. Sono d’accordo, è un bisogno verissimo, ma richiede molta sincerità. Per potersi lasciare andare alla gioia, bisogna essere disponibili a pagare il prezzo del dolore.
In questi anni ho incontrato tante persone che per paura di soffrire soffocavano le aspirazioni o i desideri più audaci, chiudendosi alla gioia.

A nostro figlio Pio, quando era piccolissimo, i medici avevano dato solo pochi anni di vita, invece ne farà diciotto a breve. In questi anni, è stato ricoverato tante volte in ospedale e, diverse volte, è stato in rianimazione in condizioni gravissime. Spesso abbiamo avuto una seria paura di non riportarcelo a casa. Abbiamo sofferto tanto per lui e anche per l’altro figlio Paolo, che ha avuto un tumore maligno nei primi mesi di vita; ha dovuto fare tante terapie. L’aspettativa di vita per lui era bassissima. è stato operato e ha dovuto fare radioterapia. È stato un momento duro, una vera batosta.

E quando doveva venire un bambino sieropositivo dall’Africa ed invece è morto il giorno prima di poter avere i documenti necessari, lì è partita la rabbia. Avevamo pregato tanto. Sembrò che Dio ci avesse fatto una beffa. Tornò la pace quando mi ricordai che io non sono il Dio di nessuno. Io e Francesca avevamo agito secondo il bene, ma dovevamo restare consapevoli che non siamo i salvatori di nessuno. L’altra persona è sempre un dono: non siamo noi che salviamo.
La verità è che Dio salva l’uomo nel suo popolo. La dimensione di popolo che si sostiene nel cammino con il suo Signore è sicuramente una dimensione da riscoprire.

La vostra famiglia è una famiglia in cammino, che cambia nel tempo con nuovi arrivi e partenze. Tu e Guido come riuscite a custodire la vostra coppia in questo contesto?


Ci difendiamo con i denti e con le unghie.
Le coppie, nel matrimonio, devono continuare a crescere insieme e a confrontarsi nella verità.

La maggior parte delle cose che facciamo ci portano fuori dalla coppia. Il lavoro chiede vita e tempo fuori dalla coppia. Lo studio e la formazione portano fuori dalla coppia e dalla famiglia. C’è chi colleziona figurine e chi colleziona master, come mio marito.
Queste cose qui sono anche passioni e non le fai perché vuoi stare fuori da casa, ma perché senti l’urgenza di formarti o di fare cose che ti piacciono. Eppure sono cose che ti chiedono vita.

Poi tante altre situazioni in famiglia, dai parenti alla Comunità, sono tutte cose e persone che ti chiedono vita. Per resistere o tu hai una fonte vera a cui poter chiedere vita o non hai niente da dare e ti ritrovi a dare ciò che rimane, spesso veleno. Puoi chiedere a Qualcun Altro quella vita che tu non hai.

Nel lettone, non puoi arrivarci mai troppo arrabbiati, cercando di dedicare di arrabattare del tempo da dedicare al marito. Ultimamente, io e Guido ci diamo il tempo dell’aperitivo, mentre io cucino mangiamo patatine, beviamo qualcosa e ci raccontiamo la giornata. Parliamo delle cose che abbiamo fatto da soli, di quelle che ci hanno dato più fatica, delle scelte che abbiamo dovuto fare. Così arriviamo a tavola con gli altri e il babbo e la mamma già sanno e sono una cosa sola.

Anche la Comunità chiede vita: gli incontri per i giovani, la formazione, gli incontri per noi, gli incontri con i fratelli, gli incontri con i responsabili…Tutti momenti che nutrono tantissimo, ma che pure portano via una quantità di tempo non indifferente.

Io e Guido a volte pensiamo alla fatica e al tempo che ci richiede questa vita in Comunità, ma ne siamo felici perché siamo affamati di vita e se arriviamo sfiniti, ne siamo contenti.

La vita di coppia è sempre una ricerca. La cosa fondamentale è la consapevolezza che se non ci sei come coppia, poi non ci sei come sposa, come mamma, non ci sei come sorella di comunità e così via.

C’è una Parola che vi accompagna?


Appena sposati abbiamo scelto di dare un nome alla nostra casa famiglia. Si chiama Nulla è impossibile a Dio.
In questi venti anni possiamo dire che è proprio vero.
Abbiamo vissuto storie e fatti ai limiti del miracolo. Ci sono state storie di cambiamenti e conversioni profonde. Il primo miracolo è la sopravvivenza dei nostri figli. Poi la guarigione di una signora africana con una malattia molto grave. Ha vissuto con noi un anno e mezzo e dopo terapie fallimentari è guarita completamente in maniera inspiegabile…

In questi anni, abbiamo visto che “nulla è impossibile a Dio”. Una cosa straordinaria è successa recentemente: nostro figlio Paolo, non vedente, ha vinto i campionati italiani di judo per atleti normodotati.
Siamo impazziti di gioia nel vedere la vittoria dello stesso bimbo che diciassette anni fa ha lottato per la vita.

Dietro le tante storie che abbiamo incontrato c’è una mano provvidente.

C’è un Bene straordinario che non ci lascia mai soli.

Cos’è che non manca mai nella vostra famiglia?


Il cibo!
In effetti è vero…

Cos’altro non manca mai? Vi dico che non manca mai gente a casa nostra.

È divertente il campanello che suona nei momenti peggiori o quando meno ce lo aspetteremmo.
Qualcuno che ci chiede del cibo – l’avevo detto che non manca mai! Altri ci vengono a far visita per regalarci un po’ dell’olio che hanno fatto, altri per chiederci di pregare per loro. Tanti altri vengono con le richieste più assurde…

Come non mancano le persone che vengono e chiedono, non mancano le persone che vengono e donano.

Un anno, il 24 dicembre, al nostro campanello hanno suonato i Carabinieri. Ho preso un infarto per la paura e mi chiedevo cosa potesse essere successo. Prima di scendere ho controllato che ci fossero tutti i miei figli e c’erano. Ho aperto la porta e ho visto che volevano consegnarci i panettoni per gli auguri di Natale.

Viviamo ogni giorno avventure inaspettate.

Pubblicato da ilblogdiunrabarbaro

Anna, 23 anni, amore per la vita e per Chi l'ha creata, passione instancabile per la musica. Meravigliata come stile di vita e curiosa di scoprire nuove cose, mi appassiono della vita e della bellezza, sono un'aspirante santa. Con il corno sulle spalle cammino per le strade del mondo...

6 Risposte a “Vita in abbondanza”

  1. Grazie a Guido e Francesca per avermi accompagnata in questo piccolo viaggio nella loro vita di coppia, di famiglia e di Comunità. Grazie per la vostra semplicità evangelica. Grazie per il coraggio di vivere la gioia e il dolore. Grazie per lo sguardo sorpreso con cui vivete la vostra vita e fate spazio alle storie di tanti fratelli, costruendo la vostra storia.
    Grazie ad Anna per aver raccontato un po’ di voi con questo tuo articolo.

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